venerdì 5 giugno 2015

L' empatia come strumento per porre fine alla prigionia dei “Devo"!



Per definire psicologia e caratteristiche dell’empatia è utile far riferimento anzitutto alla psicologia umanistica e in particolare a Carl Rogers, uno dei primi ad occuparsi dell’empatia e del suo ruolo nelle relazioni umane. Secondo la definizione di Rogers, "l’empatia è la capacità di utilizzare gli strumenti della comunicazione verbale e non verbale per mettersi nei panni dell’altro, identificandosi parzialmente nel suo mondo soggettivo nel contesto di un’accettazione autentica e non giudicante, evitando la fusione e mantenendo i confini del proprio Sé".
Nel concetto di empatia, psicologia e caratteristiche di personalità sembrano determinanti nel sostenere quella “capacità di mettersi emotivamente” e cognitivamente nei panni dell’altro che viene considerata un elemento essenziale di relazioni affettivamente soddisfacenti.
L’empatia non è tuttavia una dote “magica”, ma una capacità complessa che presuppone anche una buona gestione delle proprie emozioni.
L’empatia come capacità di cogliere e gestire” l’emozione dell’altro che è in noi stessi”  trova difatti le sue radici più profonde nella comunicazione madre-bambino, là dove una corretta educazione emozionale passa attraverso la capacità del caregiver di entrare in risonanza e comprendere i bisogni del bambino identificando e denominando i suoi stati emotivi affinché egli possa gradualmente imparare a riconoscerli, differenziarli e comprenderli.
Una buona regolazione affettiva è infatti connessa alla capacità di provare empatia così come al benessere della vita relazionale in generale.
Molto spesso nelle famiglie i genitori educano i figli a nascondere le emozioni negative, spinti da buone intenzioni e nell’illusione di proteggerli: tristezza, paura e rabbia sono bandite come segni di fallimento o potenziale disastro, emozioni come gelosia o frustrazione vanno repressi per evitare di creare ansia e preoccupazione nei genitori, che incitano a guardare sempre “il lato positivo delle cose”, senza lamentarsi né parlare male di qualcosa o qualcuno.
La rabbia verso i fratelli, la tristezza per la perdita di un amico, una serie di brutti voti a scuola vengono soventemente liquidate come “sono cose che capitano, non ci pensare, magari fossero questi i problemi della vita, ormai sei grande e non devi avere paura, devi solo studiare di più…”.
Per far fronte alle aspettative genitoriali, pensando di essere in errore, capita che i figli, a loro volta futuri genitori, imparino a reprimere le proprie emozioni e i propri pensieri negativi, “cattivi” , pericolosi sorridendo, ricorrendo all’evitamento, alla distrazione continua e autoconvincendosi che gli adulti, i genitori, siano incapaci di provare emozioni “brutte” come le loro, sentendosi di conseguenza colpevoli, in conflitto perenne tra “cosa DEVO fare” e “cosa VOGLIO fare”.
Quella dei “DEVO” è in effetti una vera e propria schiavitù.
La direzione della maggior parte delle nostre azioni è infatti indicata molto spesso dai vari “DEVO” che riecheggiano in noi, i diversi impulsi repressi in modo più o meno consapevole nel corso della vita.
... Devo essere! Devo fare! Devo dire!  Devo comportarmi!
Il più delle volte questi “devo” servono da “scudo protettivo” dall’imprevedibilità della vita: l’illusorio controllo della realtà esterna in tal modo si contrappone al caos e alla fragilità del mondo psichico interno. Muoversi costantemente verso un ideale di perfezione (“devo fare bene”, “devo essere nel giusto”,” devo essere il migliore, il più bravo”, “devo fare da solo”….) significa, come afferma R. Peter, “uscire dalla vita” o addirittura non entrarci mai.
Sono ormai molti gli studi che hanno evidenziato come i “devo” siano sintomo di una paura d’abbandono e di angoscia di morte: la tensione, infatti, per un impiego perfetto del tempo, per tenere tutto sotto “controllo”, è connessa al senso di finitudine e caducità della vita umana.
Esistono molte “superdonne” e “superuomini” che devono lavorare senza contare le ore, devono gestire la famiglia, devono seguire corsi, devono mantenere la linea, affannandosi a seguire il ritmo delle imposizioni che la società odierna scandisce per essere donne e uomini completi, impeccabili, perfetti in ogni cosa, anche nella sessualità.
In questo modo, i vari “super…” tentano di mettere a tacere mancanze, di rispondere alle aspettative familiari che non hanno saputo soddisfare e che trascinano come una pesante ancora o si sentono inadeguati e si vergognano perché incapaci di seguire ogni “devo” e di tener sempre al massimo gli standard.
Le persone imprigionate nei propri “devo” interni si impongono uno stress enorme che può arrivare a sconvolgere l’orologio interno, il sistema immunitario, il sonno.
Spesso la convinzione che sta alla base di tutto questo, nata nelle relazioni primarie con le figure genitoriali, è che “si deve far bene, si deve essere bravi, migliori di tutti” per meritarsi amore ed attenzione e che il proprio valore si misura dai nostri successi e dalla nostra capacità di non mostrare mai debolezze, in continuo paragone con gli altri.
L’empatia come riconoscimento dell’“essere visti” dall’altro, senza giudizi, senza consigli, senza soluzioni, ma con calore e com-prensione è uno strumento utile ad accettare le proprie emozioni negative e a sviluppare la regolazione affettiva, senza repressioni e sensi di colpa.
“Consapevolezza emotiva” significa riconoscere l’emozione che stiamo provando e riconoscerla anche negli altri.
Gli studi confermano che le emozioni esperite da uomini e donne sono esattamente le stesse, ma che gli uomini sono maggiormente portati a nasconderle, a controllarle e a svalutare i propri sentimenti per fattori culturali ed educativi.

Dr.Veronica Frilli




J. Gottman con J. De Claire: “Intelligenza emotiva per un figlio”.
C. Rubano- psicologa - Articolo online

C. Cesaroni- psicoterapeuta - Articolo online

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