mercoledì 16 maggio 2012

Crisi economica e suicidio: unica strada possibile?!


“Ancora un suicidio per colpa della crisi, si impicca imprenditore disperato” 
sembra essere notizia ricorrente di quest’ultimi mesi, durante i quali l’attenzione alla condizione finanziaria occidentale è salita diventando stato d’allerta.
 È realtà innegabile che ci troviamo in un periodo storico-economico difficile, c’è da considerare tuttavia che la preoccupazione che questa realtà genera nella cultura occidentale è sicuramente diversa rispetto a quelle culture in cui il benessere materiale non c’è stato, non c’è tutt’ora e per molto altro tempo probabilmente non ci sarà.
La psicologia ci dà ragione del fatto di come non sia l’evento in sé a scatenare il disagio psicologico ma la percezione di esso, a ragione di ciò il processo di cambiamento non parte certo stravolgendo la realtà oggettiva, ma modificando gli schemi di lettura della stessa da parte dell’individuo. Così facendo quello che sembrava un tunnel senza uscita di malessere e impotenza si trasforma in una mappa di strade possibili.

Il suicidio è l’atto con il quale l’individuo si nega qualsiasi altra possibilità; il suicidio in risposta alla crisi economica rappresenta pertanto una soluzione definitiva ad una situazione che viene percepita come immodificabile e talmente intollerabile da scegliere la negazione della vita.
La prima considerazione da fare è:  perché le difficoltà finanziarie diventino un problema che si sparge a macchia d’olio nell’esperienza individuale, fino ad allagare e quindi a sommergere anche altri aspetti magari positivi della vita dell’individuo; forse la sicurezza economica e lavorativa più che rappresentare un mezzo con il quale soddisfare i bisogni primari è diventata la meta finale, e il bisogno di autorealizzazione sembra soddisfatto solo grazie al possesso di beni materiali, alla possibilità di condurre una vita densa di cose “da fare”, dove anche il tempo libero è occupato da attività che convogliano sempre nel consumo di beni e servizi.
In una società dove l’essere umano trova il senso del suo essere solo nella dimensione del “fare” e del produrre, e dove il riconoscimento sociale avviene esclusivamente grazie al ruolo è chiaro come si arrivi a pensare che venendo meno il fare, il produrre, e il ruolo venga meno anche l’essere.
Oltre a questo aspetto si deve considerare il fatto che nella crisi economica non c’è un nemico esterno contro il quale combattere, paradossalmente infatti la guerra può spaventare meno della crisi proprio perché tira fuori e canalizza le energie degli individui verso l’antagonista e porta a cooperare contro di esso. Nella crisi economica si è soli, ognuno col proprio dramma, silenzioso, perché è una vergona dire che si è perso tutto, non si può chiedere aiuto alla propria rete sociale quindi, non ci si può rivolgere neanche alla propria rete professionale mancando ormai la dimensione cooperativa, è infatti solo il successo individuale che conta, ma se si vince soli ugualmente si perde  soli. Inoltre non si può chiedere aiuto alle istituzioni che non sono in grado in questo momento di apportare soluzioni.
Ecco allora come la sensazione di impotenza, di fallimento e di immutabilità prende sempre più piede fino a condurre alla negazione della vita. Ci sono senza dubbio dei disagi individuali che predispongono all’atto del suicidio, ma da questo punto di vista, occorre un ripensamento culturale che porti a restituire importanza anche ad altre sfere dell’esistenza umana e che conduca a modificare gli attuali schemi mentali, per rendere tollerabile, qualcosa che al momento sembra essere insopportabile.
 Ilaria Pacella

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