venerdì 10 febbraio 2012

Migrazioni e cultura, tra confini e soglie


 di Lilian Pizzi

In una realtà sociale in cui i cambiamenti sono rapidi e l’incontro con altre culture è inevitabile e quotidiano, vale la pena interrogarsi sul rapporto che lega cultura e migrazione. L’antropologia colloca il termine “cultura” tra le due o tre parole più complesse delle lingue dell’Europa occidentale, pertanto trovare una definizione comunemente accettata non è un’impresa semplice. Tra le tante voci, l’antropologa Erika Bourguignon definisce la cultura come “la soluzione variabile a problemi costanti”, come il risultato del dialogo serratissimo tra una comunità ed un territorio: quali dimensioni sono coinvolte in tale incontro?
La cultura non è soltanto un’esperienza etica e razionale, ma soprattutto e simultaneamente emotiva e corporea, condensazione e stratificazione delle esperienze sensoriali vissute realmente in un contesto spazio temporale unico. Antropologi, medici, psicologi adottano  l’espressione “cultura implicita” per riferirsi a ciò che del corpus culturale materiale e immateriale si iscrive in maniera indelebile nei neuroni di un soggetto durante i primi anni di vita. Questo mi ha fatto pensare alle parole di un ragazzo originario del Marocco che abita in Italia da tanti anni: “La cultura sono le immagini, le storie, ricordi, doveri che porti sulla pelle, le cose che non dici.”. E alla mia domanda su quale fosse il luogo della cultura, Mohamed ha risposto “il corpo”. Lo psicoanalista inglese Donald Winnicott aveva interrogato i classici psicoanalitici per capire dove Freud collocasse l’esperienza culturale e, a partire dalla fine degli anni cinquanta, elaborava la teoria dello spazio transizionale che dava una spallata all’ontologia dualistica, fondata sulla concezione di due sole realtà (res cogitans e res extensa, mente e corpo) per ipotizzarne una terza: un’area di transito tra soggettività ed esteriorità in cui si svolge la vita delle persone e che non è compresa né nell’azione né nella contemplazione pura, ma che riguarda piuttosto la capacità di giocare con l’informe e soprattutto tollerarne l’ambivalenza e i paradossi. Winnicott intendeva mettere in luce due cose: la componente emotiva dell’esperienza culturale, dipendente dalla capacità della mente di tollerarne la natura prettamente trasformativa e l’essenza di essa, che risiede nel processo oscillante tra disintegrazione e integrazione dei contenuti più che nei contenuti stessi. Questa visione considera ciò che chiamiamo “cultura” come un luogo di tensioni e conflitti, un “trans-ire” all’interno di un sistema che solo apparentemente possiede dei confini chiusi: chi pratica, ridisegnando quei confini che altri prima di lui hanno definito, li trasforma da semplici linee di demarcazione a spazi connotati di densità in divenire.
Al cuore dell’esperienza culturale dunque si porrebbero l’attraversamento e la transizione, concetti che ben si adattano a descrivere anche il vissuto migratorio. Il migrare spesso diviene un’ esperienza costante di non appartenenza e sospensione in un luogo in cui non si è più ciò che si era prima e non si sa ancora cosa si diventerà. Il migrante, nella sua mobilità complessa, genera dunque uno spazio altro da quello che sta lasciando e da quello in cui si sta dirigendo: attraversando i confini li trasforma in un argine transizionale che diviene soglia, un luogo in cui in cui sono possibili, per dirla con Benjamin, ‘mutamenti, passaggi e maree’. La migrazione è infatti luogo di ambivalenze (nei confronti del proprio paese originario e il paese di accoglienza, ad esempio), di conflitto che, coloro che si confrontano con i migranti, dovranno “trattenere e accettare” ancor prima di provare a darne spiegazioni. Questo atteggiamento ricorda quella ‘capacità negativa’ che il poeta John Keats attribuiva agli uomini di genio e che consiste proprio nel“perseverare nelle incertezze attraverso i misteri e i dubbi, senza lasciarsi andare ad una agitata ricerca di fatti e ragioni”. Una tale capacità di porsi di fronte all’altro, è auspicabile in tutte le figure (medici, psicologi, educatori etc…) che in vario modo intendono accogliere la persona migrante in difficoltà. La cultura, dunque, esattamente come la migrazione, paradossalmente vissuta da molti come minaccia culturale, non può che appartenere a questa dimensione del -tra, prefisso che letteralmente significa “nel mezzo” ma deriva da trans che significa “oltre”.
Pensare il mondo in termini di confini e di appartenenze culturali nettamente distinte le une dalle altre è una costruzione che se da un lato ha contribuito a dare un ordine ai rapporti umani, dall’altro ha avuto conseguenze drammatiche. Estendere il concetto di possesso/ proprietà privata dall’ambito territoriale a quello culturale induce a pensare anche quest’ultimo in termini di confini che separano entità indipendenti, mentre è il praticare il confine, tra-sformarlo in soglia ad ampliare il sapere e l’esperienza che chiamiamo “cultura”.
Credere di poter tracciare i confini di una cultura e oggettivarla una volta per tutte non soltanto equivale ad ignorarne le lente ma costanti trasformazioni, ma anche a non pensarla come un luogo dove la contraddizione e l’ambivalenza, se osservate e non ridotte a mero “problema”, ne costituiscono le premesse evolutive. Se tra le sfide di una realtà transculturale ci sono il rispetto e la valorizzazione dell’Altro e la sua partecipazione ad un sistema condiviso, assumere una ‘capacità negativa’ di fronte alle diversità che si presentano, permette di trasformare uno spazio denso di contraddizioni e paradossi in uno spazio di ‘liberta’ nel senso suggerito dal filosofo Jean-Luc Nancy: “una forma di condivisione che unisce separando”.
 

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