“Ancora
un suicidio per colpa della crisi, si impicca imprenditore disperato”
sembra essere notizia ricorrente di
quest’ultimi mesi, durante i quali l’attenzione alla condizione finanziaria
occidentale è salita diventando stato d’allerta.
È realtà innegabile che ci troviamo in un
periodo storico-economico difficile, c’è da considerare tuttavia che la
preoccupazione che questa realtà genera nella cultura occidentale è sicuramente
diversa rispetto a quelle culture in cui il benessere materiale non c’è stato,
non c’è tutt’ora e per molto altro tempo probabilmente non ci sarà.
La
psicologia ci dà ragione del fatto di come non sia l’evento in sé a scatenare
il disagio psicologico ma la percezione di esso, a ragione di ciò il processo
di cambiamento non parte certo stravolgendo la realtà oggettiva, ma modificando
gli schemi di lettura della stessa da parte dell’individuo. Così facendo quello
che sembrava un tunnel senza uscita di malessere e impotenza si trasforma in
una mappa di strade possibili.
Il
suicidio è l’atto con il quale l’individuo si nega qualsiasi altra possibilità;
il suicidio in risposta alla crisi economica rappresenta pertanto una soluzione
definitiva ad una situazione che viene percepita come immodificabile e talmente
intollerabile da scegliere la negazione della vita.
La
prima considerazione da fare è: perché
le difficoltà finanziarie diventino un problema che si sparge a macchia d’olio
nell’esperienza individuale, fino ad allagare e quindi a sommergere anche altri
aspetti magari positivi della vita dell’individuo; forse la sicurezza economica
e lavorativa più che rappresentare un mezzo con il quale soddisfare i bisogni
primari è diventata la meta finale, e il bisogno di autorealizzazione sembra
soddisfatto solo grazie al possesso di beni materiali, alla possibilità di
condurre una vita densa di cose “da fare”, dove anche il tempo libero è
occupato da attività che convogliano sempre nel consumo di beni e servizi.
In
una società dove l’essere umano trova il senso del suo essere solo nella
dimensione del “fare” e del produrre, e dove il riconoscimento sociale avviene
esclusivamente grazie al ruolo è chiaro come si arrivi a pensare che venendo
meno il fare, il produrre, e il ruolo venga meno anche l’essere.
Oltre
a questo aspetto si deve considerare il fatto che nella crisi economica non c’è
un nemico esterno contro il quale combattere, paradossalmente infatti la guerra
può spaventare meno della crisi proprio perché tira fuori e canalizza le
energie degli individui verso l’antagonista e porta a cooperare contro di esso.
Nella crisi economica si è soli, ognuno col proprio dramma, silenzioso, perché
è una vergona dire che si è perso tutto, non si può chiedere aiuto alla propria
rete sociale quindi, non ci si può rivolgere neanche alla propria rete
professionale mancando ormai la dimensione cooperativa, è infatti solo il
successo individuale che conta, ma se si vince soli ugualmente si perde soli. Inoltre non si può chiedere aiuto alle
istituzioni che non sono in grado in questo momento di apportare soluzioni.
Ecco allora come la sensazione di impotenza, di
fallimento e di immutabilità prende sempre più piede fino a condurre alla
negazione della vita. Ci sono senza dubbio dei disagi individuali che
predispongono all’atto del suicidio, ma da questo punto di vista, occorre un
ripensamento culturale che porti a restituire importanza anche ad altre sfere
dell’esistenza umana e che conduca a modificare gli attuali schemi mentali, per
rendere tollerabile, qualcosa che al momento sembra essere insopportabile.
Ilaria Pacella
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