lunedì 30 gennaio 2012

Psicologia positiva

di Lilian Pizzi

Le discipline biomediche, psicologiche e sociali sono ultimamente sempre più impegnate a concentrare la propria attenzione sulle risorse dell’individuo per migliorarne l’inserimento attivo nella società.
Affinché i professionisti della salute possano aiutare a migliorare gli standard di vita, occorre  prima di tutto identificare e definire le dimensioni dell’esperienza dello “star bene”, per poi mettere a punto strategie capaci di rendere le persone in grado di valutare la qualità della propria vita, tenendo presente che le condizioni che ne consentono una piena realizzazione variano molto da un’età all’altra, da una cultura all’altra, o da un gruppo sociale all’altro.
A dispetto o, forse, proprio in ragione del clima altamente stressogeno che contraddistingue il periodo storico in cui viviamo, i professionisti della salute sembrano dedicarsi, quindi, in maniera sempre più esplicita al benessere.
Condizione ambita, esso è l’oggetto di studio della recentissima psicologia positiva, una disciplina in rapida espansione al confine con l’antropologia medica applicata, che attira sempre maggiore attenzione dal mondo della ricerca e degli operatori. Apparsa ufficialmente per la prima volta sul numero monografico di American Psychologist del 2000, essa privilegia le componenti costruttive dell’individuo e dei gruppi e sottolinea criticamente, nella sua stessa definizione, la propensione tutta occidentale a scotomizzare il positivo dalla caratterizzazione della psicologia generale laddove, invece, in altri contesti culturali è tutt’altro che comune coltivare una visione negativa e patologica dell’uomo. La psicologia positiva si concentra sul benessere “eudamonico”, non inteso come piacere personale, ma come capacità umana di perseguire obiettivi complessi e significativi sia per il singolo che per la società in cui vive. Il termine aristotelico “eudaimonia”, non corrisponde propriamente alla felicità, classicamente intesa come condizione soggettiva, quanto piuttosto al processo di interazione e mutua influenza tra benessere individuale e collettivo, tale per cui la felicità individuale si realizza nello spazio sociale.
Questa corrente innovativa, come spiegano i fondatori Seligman e Csikszentmihalyi, nasce in risposta alla crisi dell’occidente e, in particolare, ai valori della società statunitense: la cultura nordamericana, all’apice del potere politico ed economico, può scegliere di continuare a puntare sulla ricchezza materiale, ignorare i bisogni umani dei suoi cittadini e degli altri popoli, favorendo l’aumento dell’egoismo, dello squilibrio tra i più e meno abbienti, continuare a mantenere uno stato di squilibrio oppure optare per un cambiamento dei suoi valori e priorità. Molte ricerche hanno  provato che in ogni cultura gli individui sperimentano quella condizione di positività legata allo svolgimento di un’attività specifica, di durata limitata, che nutre il sé e che Csikskzentmihalyi ha definito negli anni settanta con l’espressione esperienza ottimale o flow (flusso di coscienza). Essa corrisponde all’idea che il benessere di un individuo dipenda dal suo coinvolgimento in attività interessanti, in cui abbia possibilità di riscontro sull’andamento dell’attività stessa e sulla propria prestazione, soddisfazioni intrinseche, perdita della consapevolezza oggettiva di sé, sperimentando una condizione di perfetto equilibrio tra le sfide proposte dall’attività (challenges) e le competenze (skills) possedute. È ciò che accade, ad esempio, quando siamo completamente immersi nel lavoro che stiamo eseguendo, al punto che ignoriamo totalmente tutto ciò che accade intorno. L’apatia, esperienza opposta a quella ottimale, descrive invece una perdita di motivazione, di interesse e iniziativa personale, e rappresenta spesso la condizione che apre a situazioni di disagio e disadattamento.
Le attività ripetitive che non richiedono un coinvolgimento attivo dell’individuo sono le più diffuse nelle società post industriali, in cui il disagio e l’insoddisfazione risultano tipiche condizioni esistenziali.
Non è un caso, quindi, che, se in alcune società tradizionali sono molte le tecniche che consentono di raggiungere queste peak experience (la cosiddetta “esperienze delle vette”) - pensiamo, tra le altre, alle varie tecniche di meditazione - anche la medicina e la psicologia occidentale siano sempre più interessate ad indagare questi ambiti, per introdurre strumenti e tecniche terapeutiche che riattivino una body- mind connection, attingendo al contempo ai risultati delle moderne ricerche neuroscientifiche attestanti la relazione costante tra attività del corpo e stati mentali.




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